Riflessioni sul TRE

Logo - Anelli Borromei

Gli anelli Borromei - chiamati così perché compaiono nello stemma della famiglia Borromeo - I tre cerchi d’oro a punta di diamante, intrecciati in modo tale che spezzandone uno anche gli altri due si disgiungano, simboleggiano l’unione indissolubile tra: 

Borromeo, Sforza e Visconti

Durante il medioevo hanno spesso rappresentato la S.ma Trinità.

Nella teoria dei nodi sono un esempio di link.

(Si possono scegliere essenzialmente due strade: un nodo può essere definito come una linea spezzata chiusa o una curva differenziabile nello spazio. Si definisce quindi una nozione appropriata di equivalenza fra nodi. Un link è una unione finita disgiunta di nodi). 

Nell’Esoterismo quando 

i Costruttori divengono Cavalieri e poi Sacerdoti;

essi sono composti da :

Corpo (Materialità)  -  Anima (Coscienza)  -  Spirito (Divino). 


Da riflettere su: 

Minerva (Saggezza) - Ercole (Forza) - Venere (Bellezza)

e su Fede, Speranza e Carità


Ed ancora i tre Labirinti fondamentali :

Unicursale (Filo di Arianna) - Manieristico (Rami secchi) 

Rizoma (Palla di Burro).

Vi sono teorie che nella storia della scienza hanno occupato una posizione dominante per secoli ma che sono state rapidamente defenestrate e dimenticate a beneficio di altre spiegazioni che meglio rappresentano la realtà che ci circonda.

Basti ricordare due esempi eclatanti, la teoria della generazione spontanea (abiogenesi ) in biologia e l’esistenza dell’etere in fisica.

 

       Un TFA  Giancarlo Bertollini

La Tolleranza !

Il paradosso della tolleranza è un paradosso che si configura nell'ambito dello studio dei processi decisionali, enunciato dal filosofo ed epistemologo austro-britannico Karl Popper nel 1945 (Anno della mia Nascita) Esso stabilisce che una collettività caratterizzata da tolleranza indiscriminata è inevitabilmente destinata ad essere stravolta e successivamente dominata dalle frange intolleranti presenti al suo interno. 

La conclusione, apparentemente paradossale, formulata da Popper, consiste nell'osservare che l'intolleranza nei confronti dell'intolleranza stessa sia condizione necessaria per la preservazione della natura tollerante di una società aperta.

Il filosofo Karl Popper definì il paradosso nel 1945, ne “La società aperta e i suoi nemici”. 

Meno noto è invece il paradosso della tolleranza: la tolleranza illimitata deve portare alla scomparsa della tolleranza. Se estendiamo l'illimitata tolleranza anche a coloro che sono intolleranti, se non siamo disposti a difendere una società tollerante contro l'attacco degli intolleranti, allora i tolleranti saranno distrutti e la tolleranza con essi.

Concluse quindi che siamo giustificati nel rifiutarci di tollerare l'intolleranza: 

"Noi dovremmo quindi proclamare, in nome della tolleranza, il diritto di non tollerare gli intolleranti."

  Ho detto !

Fr. Giancarlo Bertollini


Bibliografia: 

°   Da Ricerche sul WEB 

°   Testo, Autore Karl Popper 


Nel Gabinetto delle Riflessioni

 

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GIOSUE' CARDUCCI: IN MEMORIAM

Il 18 febbraio 1907 vennero celebrati a Bologna, dove 

era morto due giorni prima, i funerali di stato del grande 

poeta Giosuè Carducci, premio Nobel per la letteratura. 

Come da sua richiesta egli venne sepolto 

con i propri parametri massonici. 

Altri quattro massoni italiani furono insigniti del premio Nobel:

Camillo Golgi (medicina), Ernesto Teodoro Moneta (pace), 

Enrico Fermi (fisica), 

Salvatore Quasimodo (letteratura). 

Non vinse mai il Nobel un altro grande poeta massone: 

Giuseppe Ungaretti. 

Numerosi furono i massoni non italiani a vincere il premio Nobel: 

tra essi ricordiamo Einstein,  Kipling e Tagore. 

Massoni furono anche Goethe, 

Mozart, Voltaire,  Napoleone, Washington, Franklin, Jefferson, 

Lincoln,  Garibaldi, Blavatsky,  Steiner, Wilde, Fleming, 

Guenon, Mitterand, Totò, Gino Cervi, Rossano Brazzi, 

Stan Laurer e Oliver Hardy (Stanlio e Ollio), Duke Hellington, 

Louis Armstrong e  Sean Connery.  


Però secondo alcuni imbecilli siamo "un pericolo per l'umanità"!


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IL MITO DELLA CAVERNA

Il “mito della caverna”, una famosa metafora di Platone, filosofo greco a cavallo tra il V e il IV secolo a.C., è tra le più interessanti ed attuali della nostra cultura, perché ci mostra come certi messaggi e certe tematiche siano state già affrontate nei tempi antichi, senza che ne cogliessimo alcun insegnamento.

Nel “mito della caverna” Platone mostra come la maggior parte degli esseri umani viva credendo che ciò che vede sia l’unica realtà possibile, senza rendersi conto che quello che osserviamo e percepiamo è solo un’ombra, ovvero una piccolissima parte di ciò che esiste. Inoltre, non sempre queste ombre rappresentano ciò che davvero esiste, perché, nella maggior parte dei casi, tutto ciò che ci viene riferito come “verità” è frutto delle decisioni di chi vuol far crescere in noi determinate credenze per limitare le nostre capacità. Rendiamoci conto che il mito di cui si sta argomentando è stato scritto 2000 anni fa e sembra essere ancora attuale.

Ciò implica che la storia si ripete da almeno 2000 anni, e questo denota che non abbiamo compreso che metaforicamente stiamo ancora dentro la caverna.

Per capire meglio il concetto potete vedere qui sotto un’immagine:

A sinistra troviamo degli uomini con la testa, il collo e le braccia incatenate fin dall’infanzia, in modo tale che essi possano vedere solo una parte della caverna posta davanti a loro. Alle spalle dei prigionieri è stato acceso un enorme fuoco, e tra il fuoco ed i prigionieri corre una strada rialzata.

Lungo questa strada è stato eretto un muro, e dietro ad esso si trovano alcuni uomini che portano varie forme di oggetti e animali la cui ombra viene proiettata sul muro davanti ai prigionieri tramite la luce emessa dal fuoco. Se qualcuno degli uomini che portano gli oggetti simbolici emettesse dei suoni o dei versi, i prigionieri, non potendo vedere altro, penserebbero che questi vengano emessi dalle ombre.

Ora, si supponga che uno dei prigionieri riesca a liberarsi raggiungendo l’uscita della caverna. Da quell’ altezza egli potrebbe avere un’idea molto più chiara della situazione presente nella caverna, e rendersi conto che le ombre sono solo una proiezione di qualcosa che in realtà non esiste, e che tale visione è stata imposta da qualcuno.

A quel punto il fuggivo che ha preso consapevolezza ha due scelte: andare verso la luce o tornare nella caverna.

Dopo aver vissuto anni e anni al buio, la luce può far male, e può accecarlo.

Inizialmente è possibile che possa non vedere e che si senta confuso, e questo potrebbe spaventarlo. Se vorrà andare oltre la caverna e conoscere il mondo esterno, potrà farlo solo con il tempo e la volontà. Il percorso non sarà facile, ma alla fine ricomincerà a vedere e scoprirà suoni e forme che gli daranno gioia e vitalità.


Questo mito vi ricorda qualcosa? 


Gli uomini incatenati davanti alle ombre proiettate da alcuni “signori” non ricordano un poco la nostra popolazione seduta davanti al televisore che guarda, ascolta e accetta una realtà proposta da un “sistema” che ci vuole incatenati e vincolati a ciò che ci viene prospettato come unica realtà possibile?

Il fuggitivo Vi non ricorda tutte quelle persone che hanno capito come funziona il “sistema” e provano con volontà e tenacia ad andare oltre quello che sanno, riscoprendo un modo di vivere totalmente diverso?

La luce che acceca il fuggitivo non vi ricorda le difficoltà che incontriamo quando dobbiamo abbandonare la nostra “zona di comfort” e rimboccarci le maniche per pensare diversamente e vivere meglio?

Se questo mito ricorda anche a voi tutto questo, chiedetevi perché dopo 2000 anni siamo ancora dentro una caverna senza rendercene conto.

Ancora oggi proviamo a cambiare le cose e cerchiamo l’uscita, perché dentro di noi non possiamo più credere che sia giusto stare al buio. Sappiamo che esiste un modo diverso e migliore di vivere :  nella luce ! 


Ho detto 

                                          Fr. Giancarlo Bertollini 

I SUFI

Come sostiene Daniele Malandrino su “Riflessioni sull'Esoterismo”.  

Per esporre gli insegnamenti del Sufismo in modo completo, si dovrebbe esporre almeno un sommario della dottrina sufi ; comprendente la metafisica, ossia lo studio del principio e della natura delle cose; la cosmologia riguardante la struttura dell’Universo e degli stati molteplici dell’essere; la psicologia tradizionale, alla quale è unita una psicoterapia tra le più profonde; e infine l’escatologia, che riguarda lo scopo ultimo dell’Uomo e dell’Universo, nonché il divenire postumo dell’Uomo.

L’esposizione degli insegnamenti sufici dovrebbe inoltre includere una trattazione sui metodi spirituali, sulla loro applicazione e sul modo in cui prendono radici proprie nella sostanza dell’anima del discepolo.

Seyyed Hossein Nasr (1933- ?) 



Il Sufismo


Il Sufismo può essere considerato un tentativo di risolvere la dualità di fondo celata in ogni religione, ma che l’Islam - con l’enfasi che pone sul concetto di trascendenza divina - sottolinea particolarmente: creazione e Creatore, manifestato e non-manifestato.


A proposito: da dove viene il termine Sufismo ? 


Non si sa. C’è chi afferma che derivi da safa (purezza); chi dall’espressione saff (livello più alto); chi da Ahl alSuffa (espressione per designare i Compagni del Profeta, su di Lui la benedizione e la pace).

Per altri deriva dal termine suf, lana, che molti Ordini usavano per i loro abiti. Per altri ancora da safwa (eminenza). Comunque, nel mondo islamico, la parola per designare il Sufismo è Tasawwuf, derivato da suf. Lo si designa anche con il termine di Via dello Spirito (in arabo tariqa, plur. turuq; con questa parola vengono anche definite le varie scuole sufiche) - volendo significare una via che consente al credente di avvicinarsi a Dio più delle ordinarie pratiche religiose.

Il tratto che conferma l’appartenenza del Sufismo al mondo dell’esoterismo è rintracciabile nella necessità della trasmissione diretta, che deve essere conferita dal Maestro (o da un suo delegato) secondo appropriati riti.

Nel Sufismo, la figura del Maestro (sheikh, plur. shuiuk) è molto ingombrante. Viene considerato il rappresentante del Profeta, su di Lui la benedizione e la pace, e secondo l’insegnamento di Abu al Hasan Kharaqani (960-1033) la grazia di Dio si manifesta in lui senza alcuna ingerenza; quindi le sue prescrizioni non possono essere considerate alla stregua di opinioni individuali dalle quali il discepolo eventualmente può dissentire - sarebbe un sacrilegio.

Di qui la necessità (valida per tutti i cammini iniziatici, ma per il Sufismo in particolare) di scegliersi un Maestro di cui si sia ben sicuri, e con il quale esista un rapporto di compatibilità psicologica.

La funzione che definirei principale del Maestro è gestire il menù di impressioni tramite cui il discepolo si rapporta col mondo.

Nella vita profana, gli input sensoriali si affollano e si accavallano disordinatamente, rendendo molto difficile trarne una sintesi. 


Il Maestro Sufi ha il potere di correggere questa tendenza, fornendo al discepolo la chiave che gli consente di trarre dalle sue esperienze di ogni giorno una lezione superiore


Esistono a questo scopo diverse categorie di prescrizioni e strumenti (come ad esempio interessanti esercizi sulla respirazione); ma il principale è il Ricordo di Dio (dhikr), una formula che deve essere recitata dal discepolo un certo numero di volte al giorno - ad alta voce o mentalmente, da solo o in compagnia. Ogni tariqa si distingue per il suo specifico dhikr e il suo modo di recitarlo.

Gli stati dell’essere, progressivamente più elevati, che si possono raggiungere conformandosi agli insegnamenti del Maestro si chiamano maqamat. 


Il più elevato - quello che Guénon definì Uomo Universale, raggiunto solo da pochi Sufi nella storia - è detto in arabo classico alInsan alKamil


Questo stato è solo l’applicazione conseguente dell’unico dogma dell’Islam : Non c’è altro dio che Dio, e Muhammad (su di Lui la benedizione e la pace) è un profeta di Dio. Come attesta il Corano, è possibile all’Uomo l’esperienza assoluta di Dio, senza mediazioni di sorta.

Senza abbandonare il mondo della materia, i realizzati Sufi sono fuggiti da tutto ciò che non è Dio (Abu alHasan Nuri); vivono tra noi, ma si sono lasciati alle spalle i limiti dell’umana condizione.

Il Sufismo esiste da quasi un millennio e mezzo, e come si può immaginare è difficile elaborare, per un fenomeno di questa durata, una definizione omogenea.

Come ogni altra via iniziatica, sembra essere tutto e il contrario di tutto - per esempio, in certi tempi e luoghi fu stampella della politica, raggiungendo livelli di potere mondano che difficilmente altri rami dell’esoterismo hanno eguagliato; ma in altri fu l’incarnazione del dissenso dalla rigidità delle pratiche religiose, elaborando una prospettiva teologica libertaria e vivificante che (oggi non si direbbe) l’Islam conobbe molto prima del mondo cristiano.

Nell’Islam mediorientale e occidentale, allo spostamento del Sufismo verso destra (mi scuso per questa semplificazione - intendo dire: verso l’osservanza exoterica e il rigorismo) contribuì l’affermazione dei Wahabiti.

Si tratta del primo e più importante movimento fondamentalista moderno, formatosi nel corso del diciottesimo secolo, il cui Islam si stacca tanto dal Sunnismo che dallo Sciismo. 

Comunque, anche questa piccola e tutto sommato comprensibile debolezza di alcune persone, di voler ridurre l’uomo in schiavitù per mezzo del pensiero gerarchico (magari anche spiegandogli con la massima serietà che era libero nel Medioevo e quello che davvero lo ha ridotto in schiavitù è stato il progresso…) potremmo perdonarla, se non portasse inconvenienti davvero antipatici.

Per esempio, l’esoterismo tradizionale non contempla la possibilità che chi parla in favore della tradizione e contro il progresso possa essere un ruffiano a cui conviene farlo, ovvero un furbo all’italiana che vuole arrivare in Paradiso a forza di spintarelle, ecc. - o meglio: forse la contempla, ma suppone che agli occhi di Dio questi difetti siano più accettabili della presunzione dell’Uomo di pensare con la propria testa. Perché? Perché, ovviamente, la presunzione di pensare con la propria testa implica un senso di ribellione all’autorità, quindi  una maggiore separatività, quindi una minore qualificazione per il conseguimento degli stati spirituali… 


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I DRUIDI

I Druidi vengono descritti per la prima volta con precisione nel De bello gallico di Cesare, a cui si deve di fatto la maggior parte delle notizie in nostro possesso.


Il ruolo sociale dei Druidi.


I Druidi, considerati i membri più autorevoli del loro popolo (i Celti), non avevano tutti la stessa posizione all’interno della compagine sociale: vi era un druido “capo supremo”, come afferma lo stesso Cesare (VI, 13, 8-9); vi erano poi i druidi veri e propri, che si distinguevano come sacerdoti del culto, ma anche come giudici e come consiglieri dei capi. Essi erano le figure di riferimento della società, a cui ci si rivolgeva per una molteplicità di problemi. 

C’erano anche Druidi “cantori”, che celebravano le gesta eroiche del loro popolo e accompagnavano con il loro canto i guerrieri in battaglia; essi costituivano, di fatto, la memoria storica della comunità: preservavano e tramandavano le antiche leggende, ma anche le vicende storiche e i valori morali. La loro funzione può essere equiparata a quella degli aedi o rapsodi nella cultura greca arcaica.

In ultimo, vi erano i Druidi profeti, indovini che si occupavano degli aspetti pratici connessi alla religiosità e al culto: la lettura e l’interpretazione del rituale sacrificale. Si tramanda, a questo proposito, la presenza di sacerdotesse druide, a cui spettavano compiti analoghi a quelli dei loro colleghi maschi. 


I Druidi praticavano i sacrifici umani.


Nella loro qualità di officianti dei riti religiosi, praticavano i sacrifici umani. Per esempio, per onorare Taranis, il dio del fulmine che ardeva gli alberi delle foreste con le saette, la vittima veniva arsa viva in un tronco d’albero cavo.

Un’altra forma di sacrificio umano era quella di seppellire un neonato nelle fondamenta di un edificio nel momento in cui se ne iniziava la costruzione: in questo modo si poneva l’edificio sotto la magica protezione dell’anima del morto e nello stesso tempo si placava la collera degli spiriti di quel luogo che veniva strappato alla natura per divenire “spazio” dell’uomo.

Appartiene alla categoria dei sacrifici umani anche l’usanza celtica di tagliare e portarsi via le teste dei nemici uccisi in battaglia, sia come prova del proprio valore sia per impedire che il fantasma del morto tornasse a vendicarsi.

Altri sacrifici si celebravano durante feste religiose annuali, per esempio quelle legate all’anno agricolo.


La funzione educativa dei Druidi.


Una delle caratteristiche più importanti dei druidi è la loro funzione paideutica, cioè educativa. I giovani venivano loro affidati per lunghi periodi di studio, durante i quali trasmettevano ai loro discepoli tutta la loro sapienza.

I Romani, nella loro opera di invasione del mondo celtico (per un approfondimento e da leggere Cesare alla conquista della Gallia), compresero immediatamente l’importanza dei Druidi come elemento di coesione all’interno delle diverse comunità. Essi cercarono quindi di disinnescare il potenziale pericolo, soprattutto vietando i sacrifici umani, che avevano un ruolo non trascurabile all’interno della religiosità celtica.

I Druidi gradualmente vennero privati del loro prestigio e della loro autorità e, sotto l’imperatore Claudio (41-54 d.C.), furono anche perseguitati.

Nel 78 d.C. furono definitivamente cancellati, con la distruzione di Mona, in Britannia, ultima roccaforte del mondo celtico e luogo simbolico in cui i Druidi si recavano a perfezionare la loro educazione.    


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I CELTI

I Celti, chiamati Galli dai Romani e Galati dai Greci, erano un insieme di popoli, che verso il 2000 a.C. si mossero dalla Germania meridionale tra il Reno e il Danubio per penetrare in Gallia (corrispondente ai territori attuali di Francia e Belgio) e in Inghilterra.
A partire dal VI secolo a.C., i Celti si mossero in più direzioni: verso Occidente, fino  in Spagna (nella Galizia che ne ricorda il nome) dove si fusero con le tribù locali degli Iberi, dando origine ai Celtiberi; verso Oriente, nei Balcani e in Asia Minore; verso Sud, in Italia, giunsero tra la fine del V e gli inizi del IV secolo a.C. e si stanziarono in Piemonte, Lombardia, Emilia e Marche.
Dei Celti hanno raccontato: 
Cesare, Erodoto, Livio, Polibio, Tacito ed altri.
Il De bello gallico di Cesare è senz’altro un documento di fondamentale importanza per la conoscenza del mondo celtico. 
Unita alle testimonianze archeologiche e a fonti letterarie più tarde, quest’opera consente di ricostruire gli aspetti principali della cultura celtica. Secondo la terminologia di Cesare, gli insediamenti dei Celti si distinguevano  in oppida (città), vici (villaggi) ed aedificia privata (singole fattorie). 
Questa classificazione è stata confermata 
dalle indagini archeologiche.
Gli oppida erano centri amministrativi, luoghi di mercato, sedi di santuari. Gli abitanti vi svolgevano anche attività artigianale, la cui alta qualità è attestata da numerosi ritrovamenti di attrezzi agricoli, armi, stoviglie di metallo, legno e ceramica, finimenti di cavalli e di carri, gioielli, bilance. 
Questa produzione non serviva soltanto al fabbisogno locale e alimentava un commercio a largo raggio che si svolgeva via terra e lungo i fiumi.
L’economia di scambio si basava anche sull’uso della moneta. I primi a introdurre monete nel mondo celtico erano stati i numerosi mercenari che avevano militato negli eserciti ellenistici. Le prime monete celtiche sono appunto imitazioni di esemplari ellenistici. Successivamente si sviluppò una monetazione originale, della quale sono rimasti numerosi esemplari d’oro e d’argento. 
Le città erano divise in quartieri e avevano strade e piazze ben allineate. Spesso le città avevano un’acropoli fortificata che occupava il luogo più alto ed era la sede dei governanti.
L’agricoltura celtica si basava soprattutto sui cereali e sugli ortaggi. La viticoltura fu introdotta dai Romani ed ebbe nei secoli successivi uno straordinario sviluppo.
L’allevamento era una risorsa molto importante. Le specie maggiormente diffuse erano i suini, allevati per la carne, i bovini, impiegati soprattutto per il traino e per la produzione del latte, gli ovini, gli equini, il pollame. 
In tutte le comunità celtiche, il potere politico era nelle mani di coloro che Cesare chiama i prìncipi, quello religioso nelle mani dei Druidi 
Al di sotto di queste due categorie sociali c’erano gli uomini liberi, ossia quanti si guadagnavano da vivere lavorando e che spesso possedevano terre e bestiame, e gli schiavi, per lo più prigionieri di guerra, privi di qualsiasi diritto e impiegati in lavori pesanti e umili. 
I prìncipi erano nobili guerrieri, che non svolgevano nessuna attività lavorativa; eleggevano dai loro ranghi un magistrato che per un intero anno deteneva il governo della città, coadiuvato da un consiglio di anziani.
I Druidi godevano di privilegi importanti. Unici intermediari tra il mondo degli dèi e quello degli uomini, celebravano i riti, compivano i sacrifici (anche umani), interpretavano i presagi.
La loro formazione durava molto a lungo: essi dovevano infatti dedicare una ventina d’anni all’apprendimento mnemonico dei testi sacri, che la religione celtica vietava di riprodurre in forma scritta. Proprio per questo le conoscenze della religione celtica sono molto ridotte. La testimonianza più diretta dell’universo spirituale dei Celti proviene dalle loro opere d’arte. 
Purtroppo però si tratta soltanto di immagini anonime, perché, a differenza dei Greci, degli Etruschi e dei Romani, i Celti non utilizzavano la scrittura per identificare le divinità rappresentate. 
Come tutte le religioni politeistiche dell’antichità, anche quella celtica era un insieme composito di divinità derivate dalle antiche tradizioni o provenienti da altre culture. Le divinità principali erano Lugh, «il Luminso», che amava il giavellotto e la fionda; Taranis, il dio del fulmine, che i Romani assimilavano a Giove; Esus, «il Buono», seconda divinità per importanza del pantheon celtico; Teutates, il dio della guerra.

Il disegno riproduce una tipica abitazione celtica risalente al 300 a.C. circa: una capanna rotonda costituita da una struttura di legno sormontata da un tetto conico in paglia. Le pareti erano formate da una cannicciata ricoperta su entrambi i lati da uno strato di argilla e gesso. All’interno dell’abitazione le donne svolgevano le loro mansioni. C’era il telaio verticale per tessere; per cucinare, le donne disponevano sia del fuoco, che serviva anche per riscaldare l’ambiente, sia di un forno a cupola di argilla. Nonostante la sua semplicità, questo tipo di abitazione era particolarmente robusto, tanto da resistere ai rigidi climi invernali del Nord Europa. 

                                           

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IL CUBITO !

IL CUBITO

Il Cubito era diviso in 7 Palmi di 7,47 cm, 

a loro volta divisi in 4 Dita di 1,8 cm.

100 Cubiti costituivano un Khet. 



Valore Assoluto del Cubito. 


E’ necessario fare una precisazione: 

in antichità non esisteva un rigido sistema di controllo

dei Pesi e delle Misure, come nel Mondo moderno. 

A seconda dei periodi storici e delle località

le unità di lunghezza potevano variare leggermente. 

Il valore di 52,5 cm del Cubito Reale

e 44,7 cm per il Cubito piccolo, costituiscono dei valori medi.

A testimonianza di questo, sono le diverse dimensioni che sono state riscontrate nei righelli di misura trovati negli scavi archeologici.

I Cubiti ritrovati nella Tomba dell’Architetto Kha, 

oggi conservati a Torino, 

misurano 52,4 cm (quello dorato) 

e 52,7 (quello pieghevole in legno).

Nella stessa sede sono conservati altri tre Cubiti, 

due di 52,5 cm e uno di 52 cm.

Infine, il Cubito di legno conservato al Louvre risulta lungo 52,4 cm

Mentre quello del British Museum di Londra di 52,35 cm.

E’ interessante notare che studi matematici-architettonici 

fatti sui rapporti di forma della Piramide di Cheope 

e sulla Camera del Re, indicherebbero che,

al tempo in cui fu realizzata, il Cubito Reale fosse di 52,37 cm (Petrie 1934).


La lunghezza del Cubito Reale espressa in cm è pari a 52,36.

Questo valore è oggi accettato da tutti gli studiosi.


La distanza dal gomito alla punta del dito 

era anticamente la misura usata più comune.

Il Cubito Ebraico era di 44,45 cm mentre quello Egiziano era un pochino più lungo (44,7) ed era di sei Palmi (vedi Palmo). 

Il Cubito lungo o Reale era invece di sette Palmi 52,36 cm.

Il Cubito Romano era uguale a quello Ebraico. 



Roma, 17 maggio 2017 E.V. 

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Un contributo sulla Storia della Massoneria

Giustamente una Sorella mi ha chiesto delucidazioni sulla scissione del 1908. Ho ritenuto opportuno integrare ricordando le iniziazioni femminili. 

Giancarlo Bertollini. 

Le origini della Gran Loggia d'Italia traggono le mosse dallo scisma col Grande Oriente d'Italia (24 giugno 1908) di un notevole numero di Massoni, appartenenti al Rito Scozzese Antico e Accettato, guidati dall'allora Sovrano Gran Commendatore Saverio Fera.

Le ragioni dello scisma sono state essenzialmente di natura politica, anche se, da tempo, esistevano divergenze di particolare importanza (pensiamo alle prime iniziazioni femminili fatte da Garibaldi con gran parte del GOI che le riteneva inaccettabili) dopo l'elezione a Gran maestro di Ettore Ferrari, si perseguiva un orientamento di carattere radicale ed anticlericale mentre molti altri di Piazza del Gesù, sostenevano la parità con le Donne e avevano un approccio più conciliante con la Chiesa cattolica e, in genere, più aperto e liberale. Il casus belli fu una proposta di censura, avanzata da Ettore Ferrari nel corso della Gran Loggia annuale del GOI, all'indirizzo di quei parlamentari aderenti alla massoneria che si erano rifiutati di votare alla Camera dei deputati la mozione del socialista gradualista Leonida Bissolati, anch'egli massone, volta ad abolire l'insegnamento della religione o di storia delle religioni nella scuola elementare. Il Sovrano gran commendatore in pectore del Rito scozzese, Saverio Fera, forte oppositore della politicizzazione forzata perseguita da Ferrari all'interno dell'obbedienza, pose il veto formale contro la proposta di censura. La frattura che ne seguì all'interno dell'obbedienza fu insanabile, e il 26 giugno 1908, a seguito dell'elezione di Achille Ballori, membro del Supremo consiglio vicino a Ferrari, a Sovrano Gran Commendatore del Rito scozzese, Saverio Fera dichiarò risolte le costituzioni del 1906 e sciolto il rapporto con Grande Oriente d'Italia. Il 13 luglio il Gran maestro del GOI, Ettore Ferrari, espulse Fera e tutti i massoni del Supremo consiglio a lui vicini. Molte logge del GOI seguirono Saverio Fera nella costituzione della Serenissima Gran Loggia d'Italia e nel giro di un anno la nuova obbedienza ne contava già oltre cinquanta. Questa tendenza proseguì negli anni successivi, soprattutto al sud, dove la Gran Loggia d'Italia superò, per numero di aderenti, il Grande Oriente. 

Nel 1912 la Gran Loggia d'Italia ottenne, inoltre, il riconoscimento internazionale della Conferenza mondiale dei supremi consigli di Rito scozzese antico ed accettato, che ne accrebbe il prestigio e la credibilità in Italia e all'estero.

Giancarlo Bertollini 

Un contributo sulla nostra storia. 

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I ROSACROCE TRA LEGGENDA E REALTA’

La profezia di Paracelso

Prima di morire Paracelso aveva profetizzato che nel 1572 sarebbe passata sopra la terra una cometa, annunciatrice di profondi cambiamenti nel mondo. La nuova “riforma magica” sarebbe stata apportatrice di pace e tutti gli uomini saggi avrebbero lavorato insieme per il bene dell’umanità. Sull’onda di questa idea nacquero alcune società iniziatiche, come i “Fratelli della Croce d’Oro”, fondata da Agrippa, e la “Milizia evangelica” di Lunenburg. Ma fu solo nel 1614 che apparve un libretto, la Fama fraternitatis, cui seguì la Confessio fraternitatis, che erano il manifesto, comprendente tutti i principi dell’Ordine, della società iniziatica dei Rosacroce. 

Paracelso 
Luogo di nascita: Egg, Einsiedeln, Svizzera 
Morte: 24 settembre 1541, Salisburgo, Austria

Rosacroce sono la setta segreta che ha destato il più grande interesse popolare, perché la più misteriosa; il nome deriverebbe dal fondatore dell’ordine, Christian Rosenkreutze, figura mitica che ha fatto discutere a lungo gli storici sulla realtà della sua esistenza.
I Rosacroce si manifestarono al mondo nel 1614, quando nelle città di Kassel e di Strasburgo fu pubblicata la Fama fraternitatis, che riportava il messaggio di un anonimo adepto di questa fratellanza iniziatica, che cercava il rinnovamento morale per arrivare alla perfezione, ottenibile in concomitanza con una serie di riforme. Vi si narrava la storia di Christian Rosenkreutze, nato nel 1378 da una povera famiglia tedesca ed educato in un convento, che aveva lasciato per viaggiare per il mondo ed in particolare in Oriente; a Damasco aveva ricevuto conoscenze segrete da un gruppo iniziatico che aveva la sede principale nella inaccessibile città di Damcar, in Arabia.

Tornato in Germania, Christian aveva fondato un’associazione con quattro amici, legati da un giuramento di fedeltà e di silenzio, allo scopo di dedicarsi alla cura dei malati.

Col tempo i membri erano diventati otto; abitavano in varie parti del mondo e si riunivano una volta l’anno in una casa chiamata “Dimora dello Spirito Santo”, per parlare delle proprie esperienze e fare insieme progetti per il futuro.

Christian era morto nel 1484, alla bella età di centosei anni, ma la sua tomba era stata scoperta solo nel 1604: coloro che vi erano entrati l’avevano vista illuminata di una luce sovrannaturale e piena di libri di magia, alcuni di autori che non erano ancora nati ai tempi della morte di Christian.

Nel frattempo i Rosacroce si erano moltiplicati, costituendo una vera e propria confraternita; essi non vestivano in modo particolare, adattandosi agli usi del paese che li ospitava; avevano in odio la lussuria, erano buoni cittadini, riconoscevano la supremazia dell’Impero Germanico e facevano voto di aiutare tutti coloro che erano degni, servendo Dio e sostenendo il progresso della conoscenza; per loro religione e scienza non erano agli antipodi, ma si completavano a vicenda.

Nel 1615 uscì la Confessio fraternitatis rosae crucis, indirizzata ai sapienti europei, che spiegava i gradi iniziatici e scopriva i suoi netti caratteri protestanti; l’anno seguente uscì l’ultima parte del libello, Le nozze chimiche di Christian Rosenkreutze, forse il più interessante dei tre, un romanzo iniziatico che descriveva l’illuminazione di Christian Rosenkreutze e illustrava le basi della spiritualità rosacrociana.

Un così straordinario programma di vita creò un incredibile fermento fra gli intellettuali europei, che si divisero in due gruppi, uno di critica ed uno a sostegno delle teorie enunciate. L’ideale dei Rosacroce incarnava benissimo l’inquietudine, le speranze di miglioramento, la voglia di cambiamento e di riforme che agitavano non solo la Germania, ma tutta l’Europa. Affascinò talmente gli ingegni dell’epoca che Cartesio cercò invano degli adepti per farsi iniziare alla setta. Le polemiche sulla confraternita si sprecarono; alcuni affermavano che i Rosacroce non esistevano, altri che esistevano ed erano seguaci di Paracelso; per alcuni era tutta un’invenzione del pastore luterano Giovanni Valentino Andreae; per altri erano falsi Rosacroce, perché quelli veri erano nati a Lunenburg nel 1598, sotto il nome di “Milizia Crucifera Evangelica”. Il massimo della fantasia fu la versione che i Rosacroce, stanchi della incredulità degli Europei, erano emigrati in India ed erano divenuti fondatori di una setta di buddhismo esoterico.


Da allora molti affermarono di essere iniziati Rosacroce.


Nel 1629 il curato di Gisors, in Normandia, Robert Deyau, scrisse una storia della cittadina e della famiglia de Gisors, affermando categoricamente che la società dei Rosacroce era apparsa al mondo profano da pochi anni, ma in realtà era stata fondata nel 1188 da Jean de Gisors e che era collegata con l’Ordine di Sion, un misterioso ordine iniziatico segreto che avrebbe dato vita anche ai Templari. 

Se ne è parlato di recente, perché sembrava essere collegato con la notissima vicenda di Rennes-le-Château, prima che si scoprisse che quello di Rennes (il Priorato di Sion) era pura invenzione. L’Ordine di Sion sarebbe stato fondato attorno al 1090 da Goffredo di Buglione, il conquistatore della Terrasanta. Gli adepti avrebbero poi preso il nome dall’abbazia di Nostra Signora di Sion, costruita dopo la conquista di Gerusalemme sul monte Sion, a sud della città, sulle rovine di una chiesa bizantina precedente del IV secolo, chiamata “Madre di tutte le chiese”.

Un cronista la descrisse nel 1172 come un luogo molto ben fortificato, organizzato e autosufficiente.

A Goffredo fu offerto il titolo di re di Gerusalemme, ma egli lo rifiutò umilmente, preferendo accettare quello di “Difensore del Santo Sepolcro“; quando morì, nel 1100, lo stesso titolo fu offerto a Baldovino, suo fratello minore, che divenne Re col nome di Baldovino I. Due dei membri dell’Ordine di Sion, de Payen e de Montbard, fondarono l’Ordine dei Templari, che lavorò in parallelo con l’altro ordine fino al 1187, quando Gerusalemme cadde ed i due ordini si divisero.

L’Ordine di Sion lasciò la Terrasanta e si trasferì in Francia; prese allora il nome definitivo di Priorato di Sion, assumendo come sottotitolo “Ormus-Ordre de la Rose-Croix“; da qui la teoria che essi fossero i precursori dei Rosacroce. Per quel che riguarda invece l’altro nome, un’antica tradizione parla di un saggio di fede gnostica, Ormus, nato ad Alessandria d’Egitto, che nel 46 d. C. aveva fondato, con altri sei seguaci, una piccola confraternita di iniziati, che aveva come simbolo una croce rossa ed una rosa. Convertitisi al Cristianesimo ad opera di san Marco, questi iniziati avevano poi diffuso idee che erano una mescolanza di gnosticismo e Cristianesimo, oltre che di dottrine iniziatiche ermetiche e pitagoriche, che in quel periodo erano diffusissime ad Alessandria. Il nome Ormus figura anche nella religione di Zoroastro, dove indica il principio della luce e del bene, quindi non era strano che qualcuno lo prendesse come pseudonimo.

Al momento della divisione dai Templari, il Gran Maestro del Priorato era Jean de Gisors, pronipote di Hugues de Payen o Ugo De’ Pagani.

Tratto dai Lavori di: Devon Scott                                                 


Devon Scott

- Data di Nascita: 1951. Indirizzo: Provincia di Imperia. (residente in Liguria) è studiosa di folklore e tradizioni magico-iniziatiche dell’Europa Occidentale e dell’area mediterranea. Ha collaborato con riviste cartacee e telematiche, partecipato a programmi televisivi d’informazione e didattici.

Suoi articoli sono presenti su vari siti esoterici. Tiene seminari sulle erbe magiche, sui talismani, sulle tradizioni sapienziali e sulla divinazione. Ha pubblicato: Tradizioni Perdute ©Lunaris 2001; I giardini incantati. Le piante e la magia lunare ©Venexia 2006; Podomanzia. Il cielo sotto di noi, ©L'Età dell'Acquario 2008; Le piante del fascino ©Aradia 2009; Il cerchio di fuoco. Leggende, folklore e magia dei Celti, ©L'Età dell'Acquario 2009; Almanacco. Il tempo della Magia, ©Spaziofatato 2012; Le porte della Luna. Magia del Femminile, prima edizione 2013, seconda edizione riveduta e ampliata 2015 ©Spaziofatato; Agenda della Mela. Magia gitana, ©Brigantia Editrice 2017.

Ha tradotto e curato L'Homme Rouge delle Tuileries di Paul Christian, ©Venexia 2011.



·         Ricerca del Fr. Giancarlo Bertollini - Ricapitolando:


«Visita Interiora Terrae 

Rectificando Invenies Occultum Lapidem 

Veram Medicinam».  


Il primo testo attribuito al movimento dei Rosacroce fu pubblicato in Germania nel 1616 a firma di Johann Valentin Andreae. A questo mitico personaggio, del quale gli storici non sono mai riusciti a negare o confermare neppure l'esistenza, è tradizionalmente attribuita la fondazione del più famoso ordine occulto dell'occidente, la Confraternita dei Rosacroce. Negli ultimi tre secoli non vi è scuola esoterica, società segreta o loggia massonica che non si sia avvalsa di riti, leggende e simbolismi di questa inafferrabile confraternita.


Come molti altri movimenti occulti, anche la storia dei Rosacroce è un susseguirsi di convegni segreti, scismi, plagi e scomuniche.


Forse per questo è così difficile arrivare a un consenso sulla loro dottrina.

Christian Rosenkreutz  (1378 - 1484) è stato un esoterista probabilmente tedesco.


Rappresentazione simbolica

Considerato il fondatore dell'ordine dei Rosacroce (o Rosa+Croce come si trova riportato in molti testi), si pensa che sia vissuto in Germania tra il 1378 e il 1484.


Biografia

Compì viaggi in Medio Oriente, intrapresi per poter approfondire le proprie conoscenze sul mondo dell'occulto, evidenziando anche una forte motivazione mistica e gnoseologica.

Fu proprio al ritorno da questi viaggi che Christian Rosenkreutz  (o Cristiano Rosacroce), rientrato in Germania, che è considerata sua patria di origine, fondò l'ordine segreto dei Rosacroce. Secondo quanto viene riportato in alcuni documenti, egli visse fino all'età di 106 anni.

Il suo corpo sarebbe stato rinvenuto, perfettamente intatto, 120 anni dopo, quando alcuni confratelli ritrovarono e aprirono la sua tomba.


Il dibattito sulla figura

La sua storia è narrata in tre documenti fondamentali:

Fama Fraternitatis (1614), Confessio Fraternitatis (1615) e Le nozze chimiche di Christian Rosenkreutz (1616, quest'ultimo generalmente attribuito a Johann Valentin Andreae).


Da quanto emerge dai documenti, la sua morte (sarebbe meglio dire il ritrovamento del suo corpo ancora integro) dovrebbe essere databile intorno all'anno 1603 (1604 secondo altre fonti). Sarebbe stato proprio il ritrovamento del corpo del Maestro l'evento detonante che portò alla rivelazione dell'Ordine dei Rosacroce agli occhi del mondo.


Una tesi diffusa è che la figura di Christian Rosenkreutz sia del tutto leggendaria; anche molti degli attuali movimenti che continuano a condividere gli ideali rosacrociani ne danno un'interpretazione figurativa, allegorica. Un'ipotesi è che egli rappresenti la personificazione di alcuni ideali (eroici, gnoseologici, religiosi, sociali, ecc.), che diversi pensatori e circoli mistici dell'epoca volevano diffondere. Tuttavia alcuni occultisti ed esoteristi del secolo scorso, come ad esempio Rudolf Steiner, Max Heindel e Jan van Rijckenborgh, pur insistendo sull'alto valore allegorico della figura di Cristiano Rosacroce, intesa a rappresentare il prototipo dell'uomo che rinasce secondo la sua essenza divina, tracciano anche, nei loro scritti, i contorni di alcuni enigmatici adepti e iniziati di alto rango, che avrebbero dato forma attraverso i secoli alle "Scuole dei Misteri Occidentali", presentandosi al mondo anche sotto questo nome simbolico. 



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