martedì 8 novembre 2016

VOLTAIRE

Se Dio non esistesse, bisognerebbe inventarlo, 
ma tutta la natura ci grida che esiste. 

Francois-Marie Arouet, detto Voltaire, è sicuramente l'autore che, nella coscienza culturale settecentesca, così come in quella posteriore, meglio rappresenta i caratteri, gli ideali e i limiti dell'illuminismo francese. In lui, scrittore estremamente fecondo che sperimenta tutti i generi letterari, anche i più spericolati, convivono il filosofo, lo storico, il politico, il poeta e il romanziere. Tutte queste attività sono accomunate da uno spirito critico che oscilla tra la garbata ironia e il sarcasmo più corrosivo, soprattutto rivolto alla Chiesa cattolica (schiacciate l' infame era uno dei suoi motti) e ai pregiudizi in generale, che impediscono all' uomo di pensare con la sua testa, servendosi della propria ragione , la candela che ci illumina la strada (come l' aveva definita Locke). Quella di Voltaire è una vita che ben risponde al nuovo stile dell'illuminismo. Nato a Parigi nel 1694, egli fu esponente di quell'agiata borghesia francese che si avviava ad assumere un ruolo di primo piano nella vita economica e culturale del Paese. Da giovane fu assiduo frequentatore dei salotti parigini, in cui circolava una cultura di schietta ispirazione libertina, che molto risentiva di quei pensatori brulicanti nella Francia del 1600. Un'offesa perpetrata al cavaliere di Rohan gli causò una breve incarcerazione nella Bastiglia e un lungo esilio, durante il quale egli dimorò in Inghilterra, rimanendo fortemente affascinato dalla cultura e dallo stile inglese. Durante la sua lunga vita non gli mancarono onori e incarichi prestigiosi. Attraverso gli uffici di madame de Pompadour, favorita di Luigi XV, fu nominato storiografo e poeta di corte. Contemporaneamente entrò in stretti rapporti epistolari con il futuro re di Prussia, Federico II il Grande, e, quando i suoi rapporti con la corte francese si guastarono del tutto, si trasferì a Berlino presso il suo nuovo protettore, ormai asceso al trono. L' amicizia tra Voltaire, il philosophe per eccellenza, e Federico II, il re filosofo imbevuto di razionalismo, è emblematica dei rapporti che la prima generazione di illuministi cercò di intrattenere con il potere politico: l' idea generale era quella di riformare il tutto per avere una società più giusta, nella quale dominasse la ragione e si cercasse il bene per l' uomo; si cercò quindi di riformare partendo dall'alto, ossia cercando alleanze con i sovrani. Quando però ci si accorgerà dell' inattuabilità di questo progetto, ecco che allora si deciderà di riformare dal "basso" e scoppierà la Rivoluzione Francese. La critica della tradizione non veniva ancora intesa come attacco al potere costituito ma, senza mettere in dubbio i fondamenti giuridico-politici dell' assolutismo, i filosofi speravano di avere udienza presso i potenti, coinvolgerli nei programmi razionalistici e promuovere attraverso di essi, dall' alto la riforma della Società: tutto ciò diede luogo alle esperienze dell'assolutismo illuminato. Ma le speranze riposte da Voltaire in Federico II, come più tardi quelle riposte da Diderot in Caterina di Russia, rimasero deluse, e lo sposalizio tra filosofia e potere si tradusse presto in divorzio, preludendo alla nuova funzione che gli intellettuali illuministi avrebbero dovuto avere nei decenni successivi. Caduto in disgrazia anche presso la corte berlinese, Voltaire si ritirò dapprima in Svizzera e poi, per un ventennio, nel castello di Ferney, dove continuò l' infaticabile attività di scrittore. La sua fama era ormai grandissima, e le nuove generazioni di illuministi vedevano nell'anziano "patriarca di Ferney" un'autorità che si poteva a volte discutere, ma non disconoscere. Il suo ritorno a Parigi nel 1778, poco prima di morire, ultraottuagenario, fu un vero trionfo: l' illuminismo cominciava a celebrare se stesso e ad avviarsi, perciò, sulla strada del tramonto. Dopo il soggiorno in Inghilterra Voltaire pubblica le Lettere filosofiche (1734), nelle quali esprime la sua ammirazione per la cultura, i costumi e le istituzioni di quella nazione, che vedeva in quegli anni trionfare il liberalismo propugnato da Locke. L' Inghilterra diventa così indirettamente un modello da proporre ai francesi per uscire dalla loro arretratezza culturale e civile. Sul piano religioso Voltaire ammira la convivenza, realizzatasi sul suolo inglese, di fedi diverse e lo spirito di tolleranza che impronta i rapporti tra di esse. A livello politico il regime parlamentare presenta molti vantaggi rispetto alle tendenze oscurantistiche della monarchia francese. Ma è soprattutto sul piano scientifico e filosofico che gli inglesi hanno molto da insegnare. Voltaire infatti individua nel metodo sperimentale di Newton e nell' empirismo gnoseologico di Locke i due fulcri concettuali che hanno trasformato la cultura europea. Soprattutto attraverso Voltaire, quindi Newton e Locke appaiono agli intellettuali francesi (e poi europei) i capostipiti ideali della nuova cultura illuministica, i maestri di un nuovo modo di pensare che deve essere sviluppato in tutti gli ambienti del sapere e della cultura. In realtà il pensiero filosofico di Voltaire non presenta particolare originalità nel suo complesso. Esso si trova esposto , ad esempio, in opere quali il Trattato di metafisica (1734) e gli Elementi della filosofia di Newton (1738). La sua concezione del mondo naturale è strettamente legata al modello del meccanicismo newtoniano, a fondamento sperimentale, in esplicita contrapposizione con quello cartesiano, costruito con un' operazione astrattamente intellettuale. Di derivazione lockiana è invece la gnoseologia di Voltaire, che vede nell' esperienza il principio di ogni conoscenza ed esclude la possibilità di dare una risposta razionale ai problemi metafisici che vanno al di là della verificabilità empirica: nihil est in intellectu quod prius non fuerit in sensu. Ancora di ascendente inglese è il deismo di Voltaire, avversario di ogni religione rivelata (schiacciate l'infame era il suo pungente motto contro la Chiesa cattolica) quanto di ogni forma di ateismo: l' esistenza di Dio, causa e ordinatore del mondo, è razionalmente dimostrabile, mentre và al di là di ogni conoscenza umana la definizione dell'essenza e degli attributi divini: secondo Voltaire, che in questo caso si avvicina molto al razionalismo aristotelico, l'esistenza di Dio può essere dimostrata con la ragione; Dio é il motore immobile, il garante dell' ordine nell' universo: Se Dio non esistesse, bisognerebbe inventarlo, ma tutta la natura ci grida che esiste. La provvidenza di Dio si limita quindi a garantire l'ordine e la necessità delle leggi naturali e non investe le vicende umane (come aveva detto pure Epicuro). Partito da un moderato ottimismo, in cui (sull'esempio del poeta-filosofo Alexander Pope) si presume che la realtà, non soltanto quella naturale, presenti nel complesso un carattere ordinato e positivo. Voltaire approda poi a un sostanziale, anche se moderato, pessimismo. Nel Poema sul disastro di Lisbona (1756), il riferimento al terremoto che colpì quella città diventa motivo di sarcastica irrisione di troppi facili ottimismi: si tratta di una violenta requisitoria contro la Provvidenza che permette l'esistenza di mali gratuiti e orribili e contro le concezioni consolatorie dei filosofi sostenitori del provvidenzialismo. Voltaire riscontra amaramente che il "tutto é bene" mi sembra ridicolo quando il male è sulla terra e sul mare. Dieci secoli di atrocità e stupidaggini, esplorate nell' Essais sur les moeurs (Saggio sui costumi) danno a Voltaire una ragione in più per non credere tanto facilmente nella possibilità della felicità umana: bisogna ammetterlo, il male è sulla terra. Questo è il contesto in cui nasce Candido; il libro apparve anonimo ma, avendo alcuni amici riconosciuto il suo stile, lo scrittore protestò la propria estraneità all'opera definendola una coinnerie (coglioneria). Il romanzo filosofico Candido o l' ottimismo (1759) è esplicitamente diretto contro la concezione leibniziana del "migliore dei mondi possibile": si narra di un giovane, Candido appunto, di nome e di fatto, che passa attraverso inenarrabili disgrazie. Viene cacciato dal suo castello, é arruolato a forza in un esercito che non lo riguarda, fa esperienza di un naufragio e di un terremoto, cade nelle mani dell'Inquisizione e patisce un autodafè, perde infine tutte le ricchezze conquistate nel paese d'Eldorado. Nè meno sventurati sono i personaggi che circondano Candido: dalla sua amata Cunegonda sino alla vecchia serva, che assistono al massacro dei loro familiari, vengono esse stesse violentate, sventrate e mutilate, provano la miseria, il travaglio e la servitù. Alle tremende sventure subite da Candido fa da contrappeso l'ottimismo ad oltranza del filosofo Pangloss, il cui nome, di derivazione greca (pan tutto + glwssa lingua) significa pressapoco "colui che ha sempre da dire su tutto"; Pangloss é irrimediabilmente convinto della tesi leibniziana secondo la quale viviamo nel migliore dei mondi possibili. L'inconcussa fede filosofica di Pangloss non viene, almeno in apparenza, incrinata neppure dalle grandi sciagure che piovono anche sul suo capo, come su quello di tutti gli altri. Nella conclusione del romanzo, Pangloss insiste nel dire che tutto é andato per il meglio. Ma Candido-Voltaire, che ha ormai imparato la lezione di vita, preferisce rinunciare a ogni interpretazione metafisica della realtà, accontentandosi di operare utilmente nel piccolo spazio che gli é riservato. Il pessimismo di Voltaire è del resto accompagnato da una radicale critica all' antropocentrismo tradizionale. Riprendendo le tesi di Giordano Bruno, egli osserva come la rivoluzione copernicana abbia privato la Terra, e quindi l'uomo, della sua centralità nell' universo. L' uomo è soltanto un essere naturale al pari degli altri innumeri esseri che popolano l'universo e, contrariamente a quanto aveva sostenuto l'esistenzialista Pascal, non ha, rispetto al mondo della natura, nessun privilegio ontologico. Ma il tratto più caratteristico dell'opera di Voltaire, e insieme quello che meglio incarna, in generale, lo spirito dell'illuminismo, è la polemica religiosa, politica e sociale che contraddistingue soprattutto l'ultimo periodo della sua vita e trova l'espressione più sistematica del Dizionario filosofico portatile (1746). Le questioni metafisiche passano ora in second'ordine e il compito della ragione diventa piuttosto quello di elaborare una critica e una trasformazione della società che investa tutte le sue istituzioni. La concezione deistica di Voltaire viene ora apertamente finalizzata alla critica del cristianesimo, inteso come fonte di intolleranza e di guerra e, quindi ostacolo allo sviluppo storico dell'umanità: una religione del tipo di quella cristiana impedisce all'uomo di servirsi della propria ragione imponendogli di compiere assurdi atti di fede. Analogamente, in ambito politico, Voltaire difende il diritto di ogni cittadino alla libertà civile e politica (in primo luogo alla libera espressione delle proprie idee), in contrapposizione a un assolutismo dal quale egli non si attendeva ormai più alcuna collaborazione. I diversi aspetti della polemica illuministica di Voltaire trovano quindi il loro centro unificatore nella difesa della tolleranza come valore imprescindibile per garantire pace, giustizia e progresso civile, come egli sostiene accoratamente nel Trattato sulla tolleranza del 1763; 'disapprovo ciò che dici, ma difenderò alla morte il tuo diritto di dirlo' egli afferma (riprendendo una frase di Evelyn Beatrice Hall - n.d.r.). Un contributo estremamente rilevante al pensiero illuministico è dato da Voltaire anche sul terreno della riflessione storica. Ciò non soltanto perchè egli è autore di grandi opere come Il secolo di Luigi XIV (1751) e il Saggio sui costumi e sullo spirito delle nazioni (1756), che costituiscono ottimi esempi di storiografia illuministica; ma in quanto, in queste stesse opere, Voltaire è anche propugnatore di una filosofia della storia (l'espressione stessa è coniata da lui) cioè di un'indagine filosofica sul significato generale del processo storico nella quale il fondamento unitario dello sviluppo dell' umanità è ritrovato nel concetto di progresso. La storia consiste in un graduale processo di incivilimento, di civilisation, dell' umanità, a partire dalla condizione selvaggia fino alle quattro grandi espressioni della civiltà umana: l' Atene di Pericle, la Roma di Cesare e Augusto, la Firenze dei Medici e la Francia di Luigi XIV. Il progresso non è quindi qualcosa di necessario e ininterrotto, ma conosce pause e involuzioni, come dimostra il periodo del Medioevo. Con ciò l' illuminismo continuava, su un piano filosofico oltrechè storico-filologico, il programma bayliano di rivalutazione della scienza storica, sminuita dalla condanna cartesiana, anche se ancora permangono pregiudizi storiografici (come, appunto, la svalutazione dell' età medioevale) che saranno eliminati solo dalla storiografia romantica .

                             a cura di Diego Fusaro

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